Cari amici e amiche, dopo una manciata di anni da expat, mi sento in dovere, come sempre, di trasmettere la verità con chiarezza, spiegando quali sono secondo me quei pregiudizi che in qualche modo i “non-epxat” ci hanno socialmente affibbiato.
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ToggleSei fortunato, vivi in un posto migliore
Su quali basi pensano questo di noi?
Vivere all’estero è spesso idealizzato come una vita migliore, libera da problemi. Eppure, oltre ai vantaggi, ci sono anche molte difficoltà. Chi vive fuori deve spesso fare i conti con la distanza dalla famiglia, la difficoltà di trovare degli amici su cui contare, le barriere linguistiche, e la sfida di integrarsi in una nuova cultura. La “fortuna” di cui tutti parlano è in realtà una conquista personale, frutto di sacrifici e adattamento quotidiano. È tornare a casa stravolti dall’allenamento o dal lavoro, volersi fare la doccia il prima possibile per buttare qualcosa in padella e stravaccarsi sul divano. E poi, il giorno dopo, alle 7 e mezza la sveglia suona.
Noi expat non siamo nessun tipo di super eroe, abbiamo lavori normali, con stipendi normali e grattacapi di ogni giorno. Anzi, i grattacapi che voi comuni umani non expat avete, noi ce li abbiamo pure in un’altra lingua. Insomma, smantelliamo l’ideale che chi vive all’estero fa una vita da sogno, perché comunque anche se vivo in una città in cui ci sono 320 giorni di sole e ho la spiaggia tutto l’anno, la vita di turista ho smesso di farla da un bel pezzo.
Sembra che tu ti sia voluto allontanare dalle tue origini
Questa brucia.
Sopratutto durante il pranzo di Natale.
Questa è una percezione comune e tocca un punto sensibile per molti italiani all’estero. Non tutti emigrano per scelta, molti lo fanno per necessità lavorative, per seguire un partner o per cercare condizioni di vita migliori. Spesso, chi rimane in Italia interpreta questa scelta come un “rifiuto” delle proprie radici. La realtà è che dietro al trasferimento c’è spesso una sofferenza nascosta e una forte nostalgia di casa.
Inoltre, l’Italia è un Paese dove famiglia e comunità sono valori fondanti. Decidere di emigrare viene a volte visto come una scelta che mette in discussione questi valori, quasi come un “tradimento”. Anche se in apparenza possono sembrare battute, i commenti sul fatto di aver “abbandonato il nido” lasciano spesso intendere una mancanza di lealtà che, in realtà, non esiste. Mi domando, ma cosa c’è di male nel non essere i tipici italiani. Io so di essere italiana, ma sento di non ricoprire per niente quegli stereotipi affibbiati alla nostra nazionalità e ormai, mi sento anche spagnola. Perché veniamo visti come traditori?
Frasi come “Ti sei dimenticato di noi” o “Ormai vivi in un altro mondo” o peggio ancora “Ormai stai bene da sola senza noi” sono spesso cariche di un sottile risentimento. E credimi me le sono sentite dire in tutte le salse. Anche se non sono sempre dette con cattiveria, portano con sé l’idea che chi ha lasciato l’Italia abbia perso parte della propria identità. Questo tipo di commenti possono ferire, perché non tengono conto degli sforzi che chi implica vivere all’estero.
È un’esperienza temporanea
Un altro stereotipo è che chi parte prima o poi tornerà. La realtà è che, spesso, chi vive all’estero trova una nuova stabilità e costruisce una nuova casa. Nonostante questo, chi rimane in Italia fatica ad accettare questa decisione e continua a immaginare un rientro che, in molti casi, non è previsto. Queste aspettative possono generare incomprensioni e delusioni tra amici e familiari, che interpretano la distanza come un’interruzione temporanea.
Normalizziamo che si può vivere tranquillamente lontano dalla propria famiglia, che ci piace vivere in un paese diverso da quello natio, che stiamo bene anche qua dove siamo adesso.
In fondo, vivere all’estero con soddisfazione dovrebbe essere visto come una scelta altrettanto valida di chi, invece, sceglie di restare vicino alla propria famiglia. Non c’è un modello giusto o sbagliato: semplicemente, ci sono percorsi di vita differenti. Accettare questo, senza imporre aspettative, significa rispettare e comprendere davvero il percorso di chi vive lontano, permettendo di mantenere relazioni più sane, sincere e rispettose anche a distanza.
Non sai più parlare italiano!
Un commento scherzoso, che però nasconde un piccolo rimprovero. Chi vive all’estero si trova spesso a parlare quotidianamente una lingua diversa, e questo può portare a una certa difficoltà a passare da una lingua all’altra. Anche se a volte scappa qualche parola in un’altra lingua, l’italiano resta parte dell’identità e non viene mai dimenticato.
E qui, ragazzi e ragazze, si apre una porta.
Secondo voi, quando comincio a parlare con mia nonna e non riesco manco a spiegarle cosa ho fatto oggi perché nei giorni più caotici mi è letteralmente impossibile formulare una frase in una sola lingua, mi sento ganza?
Assolutamente no! Mi sento una c*****a. Questo perché non solo, come nel mio caso, siamo abituati a parlare spagnolo tutto il giorno, ma anche con gli italiani che ci circondando, abbiamo ormai un vocabolario misto in cui parole come la comida, la siesta, el chino y el chocho, non verranno mai rimpiazzate dalle loro traduzioni italiane.
E così, diventiamo uno strano ibrido tra la lingua che parliamo ogni giorno e quella nostra di sempre, quella benedetta lingua madre, che ogni volta che la usiamo ci fa sorgere dubbi che non avevamo neanche in quinta elementare.
Aspettativa: Wow sei plurilingue, in che lingua sogni?
Realtà: si mamma aspetta che vado in cucina a prende un vaso.
…..
Il doppio isolamento
Questa esperienza è intrinsecamente complessa perché comporta una sorta di doppia esclusione. Nel Paese di adozione, anche dopo anni, ci si può sentire “stranieri”, faticando a creare connessioni profonde basate su riferimenti culturali che non appartengono alla propria infanzia o giovinezza. Dettagli come programmi TV, canzoni, festività, perfino modi di dire che non fanno parte del nostro passato, diventano piccole barriere. È come se un pezzo di noi fosse rimasto indietro, in un’altra lingua, in un altro tempo.
Tornando a casa, però, ci si accorge che anche lì il tempo non è stato fermo: le amicizie si sono trasformate, il contesto è cambiato, e quella stessa cultura in cui ci riconoscevamo è andata avanti senza di noi. Si ha la sensazione di essere “fuori dal giro” anche tra chi, fino a pochi anni prima, condivideva gli stessi ricordi.
Si crea così un paradosso in cui non ci si sente mai completamente appartenenti né al nuovo Paese né a quello d’origine.
È un limbo identitario che ci spinge a riflettere a fondo sul vero significato di “appartenere”. Forse è proprio in questo spazio intermedio che emerge una nuova forma di appartenenza, non più legata a un luogo specifico, ma a un insieme di esperienze, incontri, e lingue in cui ci sentiamo autenticamente a casa. Appartenere, dunque, non significa più essere legati a una terra per nascita, ma riconoscersi in emozioni, canzoni e parole che ormai ci definiscono, in cui ritroviamo il senso profondo del sentirci “a casa”.
Per concludere questo articolo vorrei riportare una citazione di Michele Murgia.
Ma ogni volta che la porta si chiude alle loro spalle e rimango a casa ad aspettare che tornino, non c’è dubbio su chi nella nostra famiglia sia il treno e chi la stazione.
E questo articolo l’ho scritto per tutti noi treni, treni che si sono creati tante stazioni e che si portano dietro il peso di quegli ultimi sorrisi lanciati dal binario, dove i nostri cari sembrano rimanere in un’eterna attesa del nostro ritorno.
Con tutto il cuore
Ambra